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Tamerisco XXIV seconda parte

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XXIV

La morte di Pietro

 

Girovagai per più di mezz’ora. La nebbia si era alquanto diradata e potei scorgere in fondo al viale l’edificio basso e lungo della stazione sormontato dall’orologio ottocentesco. Svoltai a destra; in quel tratto di strada piuttosto stretto la nebbia era rimasta fitta e una leggera brezza la scuoteva formando strane immagini zoomorfe. A cento passi si apriva la bocca scura del vicolo da cui esalava un denso vapore, come da un cratere spento o dalle fauci di un drago dormiente. Mi inoltrai in esso: il portone del palazzo era socchiuso, lo spinsi senza difficoltà ed entrai. Il cortile era come l’avevo visto la prima volta: lo stesso polveroso, trascurato disordine. Mancava il paggio. Al suo posto l’impronta del piedistallo sulla terra umida. Alcuni anni dopo rividi quel paggio dal naso mozzo nel parco di una villa. Venni a sapere che Maria l’aveva venduto a poco prezzo con alcuni mobili antichi che le erano avanzati. Fu quella l’ultima spoliazione del prestigioso palazzo dei Pergamena, prima che gli eredi lo vendessero a una società immobiliare.
Salii le scale; la porta dell’appartamento era spalancata. Bussai inutilmente. La sala era in penombra. Essendo scomparsa la nebbia, il sole, ormai al tramonto, vi penetrava dalle imposte socchiuse con una brezza che faceva impazzire il pulviscolo dell’aria. Tutto era disposto come prima: il divano, il tavolino, le sedie antiche, cadenti e sdrucite come la tappezzeria dei muri. Tutto aveva in quella luce un non so che di dignitoso che lo preservava dal tempo, come se avesse toccato il fondo del degrado e fosse destinato a rimanere così per sempre, lasciando ad altri il compito di decomporsi, di disfarsi, di scomparire, di non essere più. Credetti che la casa fosse deserta perché regnava un silenzio assoluto. Tuttavia era strano che le porte fossero aperte. Era spalancata pure la porta a vetri che portava alla camera dove era scomparso Pietro il giorno in cui ero entrato per la prima volta in quella casa. La stanza era in piena luce, una luce forte insolitamente chiara, evidentemente riflessa dall’intonaco in calce bianca delle pareti. Sul grande letto matrimoniale giaceva Pietro, o meglio il suo corpo nudo, scheletrico, ingiallito. Maria e Susanna erano intente a lavarlo strofinandolo amorevolmente con la spugna che bagnavano in un catino d’acqua dove, a giudicare dal profumo, avevano disciolto un’essenza orientale. Pareva che Pietro si fosse accorciato: il tronco era stranamente piccolo rispetto al capo, dove sporgeva il naso immobile, affilato, e il mento che si era fatto aguzzo e duro. Le palpebre chiuse, sigillate dalle lunghe ciglia cispose, incredibilmente nere, le labbra avvizzite e livide, appena socchiuse, esprimevano un sereno riposo. Era morto, come dicevano a turno le due donne, senza soffrire. Ora mi era chiaro il perché ero uscito quel giorno: per andare in quella casa dove era Pietro, morto, o meglio, il suo cadavere, perché non c’era più nulla di lui, dell’uomo dall’aspetto elegante, dagli occhi brillanti ed espressivi che suscitavano rispetto e simpatia. Quando finirono di lavarlo, lo coprirono con un lenzuolo bianco, lasciando scoperto soltanto il viso. Quindi si abbracciarono piangendo.
Quando si fece notte, Susanna uscì per tornare immediatamente con quattro ceri che accese e pose attorno al letto. Andai a sedermi nella stanza accanto, al buio. Una stanchezza mortale s’impadronì delle mie membra.
Pensai di tutto: Adelina che era lontana, dai suoi, la mia casa che era risorta dopo la devastazione dei ladri, il negozio di Sara dove dormivano i cristalli e gli argenti e il quadro della martire discinta; la passeggiata con Guido lungo il fiume, suo fratello suicida.
Arrivò Luigi per primo. Passò diritto nella camera, senza accorgersi di me.
Vennero alcuni colleghi della biblioteca e inaspettatamente Albertini in persona. Due monaci in tunica bianca bussarono timidamente alla porta, poi con una sommessa domanda di permesso, varcarono la soglia e, trovandosi completamente al buio, si fecero avanti disorientati; udito poi il brusio proveniente dalla stanza da letto, vi entrarono. Ascoltai le loro preghiere e benedizioni mentre un profumo d’incenso si spandeva per l’appartamento. Mi domandavo quale dei due fosse il monaco che aveva assistito Pietro nei suoi ultimi giorni. Mi proposi di domandare loro a quale ordine appartenessero, ma non ne ebbi l’occasione. L’appartamento cominciava a essere affollato: erano arrivati Marta e Coito. La prima volle entrare immediatamente a vedere Pietro per l’ultima volta e abbracciò Maria e Susanna che avevano ripreso a singhiozzare sommessamente. Coito si era messo a sedere lontano da me, in equilibrio su una sedia dall’altra parte della stanza. Apparentemente immerso nei pensieri, ostentava di ignorare la mia presenza. Entrò poi un signore anziano, sulla settantina, alto, ancora ben diritto nell’abito blu doppiopetto. Era lo zio di Pietro, un fratello della madre, un imprenditore edile che, come mi disse poi Michele, era molto affezionato al nipote e aveva cercato in tutti i modi di salvarlo dalla bancarotta. Era ormai l’unico che faceva caso al morto. Stava in piedi accanto al letto dove, alla luce dei ceri, splendeva il bianco viso di Pietro, cui il tremore delle fiamme donava una vita effimera. Tutti ormai parlavano tra loro a bassa voce e il brusio si era fatto imponente. Dal mio angolo d’osservazione potevo vedere il nostro direttore che si intratteneva a lungo con Susanna.
La stanchezza mi aveva rotto le gambe. Molti erano tornati nel salotto, che rimaneva al buio. Qualcuno accese perfino la sigaretta. Uscii nel pianerottolo delle scale, la notte era stellata, mai avevo visto le stelle così da vicino. M’incamminai verso casa: sentivo addosso gli occhi di Pietro, il suo sguardo febbricitante dell’ultima volta che lo vidi da vivo.
L’aria della sera era fresca, se non fossi stato così stanco avrei fatto una passeggiata, ma per quel giorno avevo camminato abbastanza.
Via Ariosto era a quell’ora insolitamente deserta. Il negozio di Sara era ancora illuminato, bussai sommessamente, nessuno rispose. Voltando l’angolo andai alla finestra che dava sul vialetto di fianco e, sollevandomi in punta di piedi, spiai dai vetri: sdraiate sopra un tappeto, ai piedi di una scrivania a fagiolo, Sara e Luisa facevano l’amore. I loro corpi nudi, illuminati appena dalla fioca luce di una lampada da tavolo, s’intrecciavano in morbide, disperate carezze. In quella notte ognuno faceva di tutto per sentirsi vivo .

 

 

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